E’ trascorso un quarto del ventunesimo secolo e il mondo va alla velocità della luce.
Oggi, più che mai, siamo abituati a correre, siamo abituati a spostamenti rapidi, siamo costretti a decidere e a produrre in tempi sempre più ristretti. Frequento poco, ormai, le aule di udienza, nonostante il settore di cui mi occupo non abbia subito più di tanto il “trauma” della digitalizzazione e dell’informatizzazione dei processi (intesi anche nel “senso giurisdizionale” del termine), causato dal covid. Per questo c’è ancora la possibilità e, perché no, il piacere di discutere una causa in un TAR piuttosto che in Consiglio di Stato. Ma mai, negli ultimi anni, mi ero fermato a riflettere su come anche il mondo dell’avvocatura stia traumaticamente cambiando. Nel corso dell’attesa di una chiamata in una pubblica udienza mi sono concentrato attentamente sulla geografia dei presenti. E il dato che più mi ha meravigliato è l’età media di chi, ancora oggi, frequenta le aule di un Tribunale Amministrativo. Io, con i miei 42 anni, ero il più giovane dei presenti. In prossimità delle chiamate sono comparsi, finalmente, un paio di praticanti dell’Avvocatura dello Stato ed un paio di giovani avvocati che accompagnavano il proprio “dominus”.
L’età media credo che andasse ben oltre i 60 anni. Ho ancora bene impresso il ricordo della mia prima volta in un TAR. Era il settembre del 2005, ero fresco di laurea e avevo sogni più grandi di quelli che avrei potuto e che potrò mai realizzare. Era un mondo profondamente diverso, con aule popolate da giovani di belle speranze ed un entusiasmo palpabile da parte di praticanti desiderosi di imparare, di impegnarsi e di raggiungere o superare i propri maestri. Di quei ragazzi, in pochissimi sono ancora avvocati.
Oggi le aule dei TAR sono molto meno frequentate e i nomi che si leggono nei ruoli di udienza si riducono sempre di più. La fuga verso il pubblico impiego è una costante in crescita e diminuiscono sempre più gli iscritti agli ordini ma, soprattutto, i praticanti. Ho avuto, nel corso della mia pur breve carriera, oltre una mezza dozzina di praticanti e oggi, sebbene non ne abbia più ricercati, visto il nuovo assetto di studio che non ci consentirebbe di formare a dovere chi si approccia alla professione, non ho un nuovo praticante da circa 4 anni. I nuovi ingressi, nella mia struttura professionale, riguardano (già da tempo) per lo più professionisti già formati e già strutturati sul piano della gestione di una propria clientela. Tranne pochissime eccezioni, chi, ancora, sostiene l’esame di avvocato lo fa per acquisire un titolo utile nella carriera all’interno della Pubblica Amministrazione e non perché si ambisca a svolgere quello che io definisco “il più bel lavoro del mondo”.
Da una parte penso con malinconia ad un mondo che non c’è più e ritengo che i nostri rappresentanti di categoria, almeno ai livelli più alti, abbiano fatto poco di ciò che andava fatto per tutelare l’avvocatura, lato sensu, senza che venisse bistrattata praticamente su ogni fronte.
Ma, d’altra parte, credo che, per un liberale come me, non si tratti altro che di una sacrosanta selezione darwiniana, che viene determinata dal mercato. Che ben venga, quindi. Se qualcuno pensa che essere avvocato significhi avere una stanza con poltrona in pelle umana, mobili in legno massiccio e la pergamena di laurea in cornice barocca, od anche avere uno studio sontuoso in cui ricevere una clientela che continua regolarmente a diminuire, per potersi crogiolare e pensare di essere un “super avvocato tuttologo”, allora non si è compresa la vera evoluzione della professione. O, meglio, non si è capito dove l’avvocatura sta andando. Le law firm e le grandi strutture si rafforzano e occupano sempre maggiori spazi, perché il pesce grande mangia il pesce piccolo e questa è legge di natura. Succede ovunque, purtroppo, e prima o poi sarebbe successo in un settore in cui vi è stata, per decenni, una superfetazione di iscritti. L’iper specializzazione diventa un must, se si vuole eccellere. L’individualismo rimane la morte della professione e solo la rete e le realtà attrezzate, in termini di risorse umane e di organizzazione, possono affrontare la sfida. La flessibilità, gli ambienti di lavoro in condivisione, gli spostamenti veloci in aereo, le call, la tecnologia: il mondo va avanti e anche l’avvocatura cambia. E forse è un bene aver compreso che la professione di avvocato non può essere un ripiego. Essere avvocato necessita di dedizione assoluta, di impegno costante, di studio metodico, di capacità di ingoiare bocconi amari e di non mollare mai la presa. Ma essere avvocato necessita soprattutto di amore: un amore incondizionato per quello che mi ostino a definire “il lavoro più bello del mondo”.
